Monsignor Aristide Pirovano nasce a Erba il 22 febbraio 1915. Dopo un’infanzia vivace, ma profondamente segnata dall’educazione religiosa ricevuta dalla madre, avverte la vocazione e nel 1931 entra nel Seminario del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime) di Treviso.
Durante gli studi perde il padre, morto in un incidente sul lavoro, e deve quindi conciliare gli impegni del Seminario con la necessità di provvedere alla famiglia. Viene ordinato sacerdote nel 1941.
Vorrebbe partire immediatamente per l’Estremo Oriente, ma la guerra e il blocco delle relazioni internazionali frenano il suo desiderio. Assegnato all’economato della sede milanese del Pime, entra in contatto con il Comitato di Liberazione Nazionale, collaborando attivamente all’espatrio di ebrei e di antifascisti.
Scoperto dai tedeschi, nel dicembre 1943 viene arrestato e incarcerato a San Vittore, dove rimane per tre mesi senza cedere alle violenze dei nazisti che vogliono carpirgli informazioni. Viene liberato per l’intervento diretto del cardinale Alfredo Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano, che all’uscita dal carcere gli raccomanda: «La prossima volta, non farti prendere!».
Tornato a Erba, padre Aristide assiste la popolazione vittima di pesanti bombardamenti e si adopera per evitare sanguinosi scontri tra le brigate partigiane e le forze nazifasciste, salvando così la città da possibili rappresaglie. Il 25 aprile 1945 si mette personalmente alla guida di una colonna tedesca armata, scortandola durante la ritirata. Successivamente protegge i fascisti da vendette e ritorsioni.
Terminata la guerra, nel 1946, con altri due missionari padre Aristide riesce finalmente a partire per il Brasile, dove il Pime intende aprire nuove missioni. Dopo ampie perlustrazioni attraverso tutto il Paese, nel 1948 viene destinato all’Amapà, un territorio immerso nella foresta amazzonica e digiuno di evangelizzazione.
Padre Aristide si impegna subito nell’esplorazione della zona, alla ricerca di tribù di indios, tra avventure e pericoli. Con i confratelli del Pime e le Suore di Maria Bambina apre la regione allo sviluppo, fondando villaggi, tracciando strade, costruendo scuole e dispensari medici, insegnando l’agricoltura moderna e l’allevamento di animali domestici. Ma soprattutto creando dal nulla una nuova Chiesa, la prelazia di Macapà, di cui nel 1950 diventa amministratore apostolico.
Nel 1955, a soli quarant’anni, padre Aristide è nominato vescovo titolare di Adriani, prelato ordinario di Macapà, consacrato il 13 novembre nella Prepositura di Erba per mano di monsignor Giovanni Battista Montini, allora arcivescovo di Milano e futuro Papa Paolo VI. Quale stemma episcopale monsignor Pirovano sceglie una nave missionaria che solca le onde spiegando sulle vele l’immagine della croce: a guidare la nave dal cielo è Maria, indicata dall’iniziale del nome, circondata da una corona di dodici stelle a rappresentare gli apostoli; il motto è «Ut vitam habeant» («Perché abbiano la vita»), sintesi dello slancio missionario del vescovo.
L’impegno di monsignor Pirovano a capo della diocesi di Macapà e il suo esempio di dedizione al prossimo convincono l’industriale milanese Marcello Candia a vendere la sua fabbrica, a impiegare le proprie risorse a favore della realizzazione dell’ospedale di Macapà (il più grande e moderno istituto di cura in Amazzonia) e, di lì a qualche anno, a recarsi in Brasile quale missionario laico per compiere numerose opere sociali ed educative a favore degli ultimi della terra.
Nel 1965 monsignor Pirovano viene nominato Superiore generale del Pime, carica che conserva per due mandati e per dodici anni complessivi.
In linea con il suo stile di vita, non rimane chiuso in ufficio, ma viaggia in tutti i continenti, promuovendo l’apertura di nuove missioni in Filippine, Camerun, Costa d’Avorio, Thailandia e Mato Grosso. Grazie alla sua guida, il Pime mantiene vivo lo spirito missionario anche durante il difficile periodo post-Conciliare. Come ha scritto padre Piero Gheddo, «se abbiamo in buona parte evitato le sbandate del Sessantotto riguardo alla fede e alla Chiesa, lo dobbiamo soprattutto a monsignor Pirovano».
Al termine del Superiorato, nel 1977 la Santa Sede vorrebbe offrire a monsignor Pirovano un incarico di alta responsabilità in Vaticano, che per lui comporterebbe il cardinalato. Ma il vescovo missionario preferisce tornare in Amazzonia, accogliendo l’invito dell’amico Marcello Candia, che nel frattempo ha iniziato ad assistere i lebbrosi di Marituba, colonia a sud di Belem: diventa così cappellano del lebbrosario.
A Marituba – soprannominata «l’anticamera dell’inferno» – lebbrosi ed ex-lebbrosi vivono isolati dal mondo, abbandonati dalle loro stesse famiglie.
Pirovano e Candia creano servizi sanitari, scolastici, religiosi e sociali, danno lavoro agli indios, attirano gente dalla foresta. In pochi anni l’ex colonia diventa una vera e propria città, abitata da decine di migliaia di persone e visitata anche da Giovanni Paolo II, l’8 luglio 1980: una giornata passata alla storia per la commovente accoglienza riservata a Karol Wojtyla, profondamente toccato.
Dopo la morte di Candia (1983), monsignor Pirovano prosegue la sua opera a Marituba sino agli inizi degli anni Novanta. Poi affida la direzione dell’ex-lebbrosario ai Poveri Servi della Divina Provvidenza (l’Opera Don Calabria) e rientra in Italia.
Continua comunque ad aiutare lo sviluppo di Marituba, dove si reca periodicamente sino all’ultimo per seguire in particolare i lavori di costruzione del nuovo ospedale. Colpito da un tumore negli ultimi mesi del 1996, si spegne alla Casa del Pime di Rancio (Lecco), il 3 febbraio 1997. È sepolto nel cimitero di Erba.