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Cresimato e sposato da padre Aristide: «Sapeva leggerti nell’anima»

Fatico a mettere per iscritto sentimenti, emozioni, sensazioni che ho vissuto nel conoscere padre Aristide. Sì, padre Aristide: questo era il suo nome per me e per tutta la mia famiglia. Non abbiamo mai conosciuto “monsignor Pirovano”, forse a motivo della sua familiarità così diretta: padre Aristide era solo padre Aristide.

Tutta la mia famiglia è sempre stata molto amica della famiglia Pirovano. I primi ricordi di lui risalgono alla mia infanzia, quando abitavo in via Mazzini, a distanza di pochi passi dalla sua casa. Ricordo bene l’amicizia con mio papà, la venerazione che ne aveva mia nonna Rachele e le frequenti visite delle sue sorelle Carla e Lina, che immancabilmente raccontavano le “nuove conquiste” di questo temerario prete, che un bel giorno aveva deciso di partire per la missione in posti che anche oggi sembrano così lontani e ancor più lo erano negli anni Sessanta.

In quei periodi lui ricopriva la carica di Superiore generale del Pime, e quindi era più facile incontrarlo a Erba. Ricordo questa figura “strana”: magrissimo, vestito non solo di nero, ma con striature color porpora, con la barba lunga e soprattutto sempre con uno smagliante sorriso, non così comune tra i sacerdoti. Credo di non averlo mai sentito una volta alzare la voce, così come credo di non averlo mai visto senza il suo sorriso. E come ti parlava… Ti guardava fisso e nello sguardo sembrava già saperti leggere nell’anima. E con quanto amore ti raccontava quelle che per me erano gesta di un vero eroe, ma che per lui erano solo il volere di un Dio che non ha mai smesso di amare.

Poi il giorno della mia Santa Cresima. Solitamente per amministrarla “reclutavano” un Vescovo della zona. E chi capitò a me? Proprio padre Aristide! Ricordo bene quando, al termine della celebrazione, mentre procedeva con passo lento con il suo Pastorale nella navata della Chiesa prepositurale si fermò proprio davanti a me – mio papà, mio padrino, era alle mie spalle – per dirmi: «Carlo, ricordati adesso di fare il bravo…». E i miei vicini di posto a chiedersi come mai mi conoscesse così bene.

Quindi la partenza per la missione di Marituba. Di quel periodo ricordo le malattie e le conquiste. Non avevo mai sentito parlare di lebbra. Mi informai un poco e mi spaventai per ciò che poteva provocare. Eppure da padre Aristide mai una parola di paura, né il timore nel restare a contatto con quei disperati. E non riuscivo a capire come questo novello “eroe dei due mondi” riuscisse, con mezzi limitati, a costruire prima delle baracche, poi una chiesa, poi un ospedale, poi casette di accoglienza e infine una città intera.

Al suo rientro, il mio matrimonio. Alla mia fidanzata Elisabetta (che acconsentì con entusiasmo) proposi padre Aristide come celebrante, immaginando tuttavia che mai avrebbe potuto accettare, visti i suoi numerosi impegni. Invece acconsentì senza esitazione: il Prevosto di allora, don Aldo Pozzi, non la prese benissimo, forse sentendosi in un qualche modo “accantonato”… Preparammo la celebrazione nella sua macchina, nel cortile della sua casetta di via Mazzini, qualche giorno prima della data fissata: la sorella Lina, evidentemente in un “giorno no”, quella sera non ci volle aprire la porta di casa. Lui non se ne fece un problema. Leggemmo insieme il libretto preparato per l’occasione, mi spiegò il significato profondo delle letture prescelte e nulla mi disse dell’omelia che avrebbe tenuto. Il suo sermone fu bellissimo e ancora oggi mi commuovo al pensiero di quei momenti, di come riusciva ad aprirti il cuore, di come riusciva a renderti partecipe di una sua spiritualità profonda calata nel quotidiano. Peraltro quel giorno da lui sentii e imparai la formula latina che ancora oggi recito al momento dell’elevazione del Santissimo: «Dominus meus et Deus meus», poi ripetuto anche in italiano. La Messa durò quasi novanta minuti, ma credo che nessuno abbia mai guardato l’orologio.

Tanti altri pensieri mi colgono mentre scrivo: la cena a casa mia, col “servizio buono” e la faticosa preparazione da parte di mia moglie, mentre lui chiedeva “il servizio di tutti i giorni” e preferiva – alle tante prelibatezze cucinate – la pastina con il brodo di carne ricavato dal lesso; la partecipazione al battesimo di mia figlia Veronica e l’amore paterno per i tanti bambini che voleva prendere fra le braccia per divertirli con la sua barba, nel frattempo divenuta bianca bianca, lunga lunga e morbida morbida; l’infarto, il ricovero all’ospedale di Lecco («ma non ho avuto tanto dolore, solo uno strano fastidio alle spalle») e l’intervento chirurgico con il conseguente taglio della barba («ma non troppo, però»); il giorno triste della sua scomparsa e il grande dispiacere di non essere riuscito a fargli conoscere mio figlio Marco, nato solo qualche mese prima (avvisato da mia sorella, aveva però esclamato: «Che bello, l’hanno chiamato come uno degli evangelisti!»). Oggi passo dalla sua tomba con una preghiera di intercessione per il mio matrimonio (la formula è più o meno sempre quella: «Guarda che tu ti sei reso garante!», perché ai morti ci si può rivolgere dando del Tu anche a chi non avresti mai osato farlo in vita) e la confessione di aver “rubato” dalla sua casa una bottiglietta con la sua acqua di colonia (che ovviamente conservo come una reliquia).

Rileggendo ora questo scritto, penso che in fondo ho solo raccontato brevi episodi, abbastanza comuni, semplici, niente di importante. Ecco perché mi è difficile rendere altri partecipi di situazioni che invece mi hanno toccato dentro, che mi hanno lasciato vere emozioni. Emozioni che solo una persona così carismatica e permeata di spiritualità poteva lasciare in chi frequentava. E ciò non si può descrivere, ma solo rivivere con il pensiero e la preghiera.

Io non so se padre Aristide, come tanti chiedono, potrà mai essere proclamato Santo. Ma non so nemmeno se abbiamo bisogno di altri Santi in Paradiso. Quello di cui però sono certo è che la sua Santità padre Aristide l’ha vissuta qui sulla terra. E qui sulla terra avremmo bisogno di tanti altri “padri Aristide”.

Solo un ultimo episodio. Autostrada A12. Maggio 1997. I miei genitori in viaggio per raggiungere i nipotini Veronica e Marco, i miei figli, in vacanza a Viareggio. Improvvisamente si sgonfiano le gomme e papà perde il controllo dell’auto, che riesce ad arrestare sulla corsia di sorpasso contro il guardrail. Nonostante il traffico sostenuto, nessun veicolo rimane coinvolto. Un vero miracolo. E mia mamma sulle gambe si ritrova una foto di padre Aristide prima conservata nel cassettino. Non lo so, ma per me un Santo l’abbiamo sempre avuto qui vicino a noi…


di Carlo PORTA

 

22-04-2025

 

Tutte le testimonianze:

Aprile: Cresimato e sposato da padre Aristide: «Sapeva leggerti nell’anima»

Marzo: Il «dottore missionario»: «Padre Aristide mi insegnò a guardare verso il cielo»

Febbraio: L’amico sindaco: «Padre Aristide, meriti di essere Santo»

Gennaio: «L’ingegnera» di Marituba: «Dom Aristides per me è stato un grande dono di Dio»

Il ragioner Angelo Porta e, alle sue spalle, monsignor Pirovano e don Aldo Pozzi
Il matrimonio di Carlo ed Elisabetta
Carlo, Eliabetta e la piccola Veronica con padre Aristide
Padre Aristide e la piccola Veronica

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