Quella di padre Aristide Pirovano è una figura leggendaria di religioso con la R maiuscola. Sono stato coinvolto dal suo carisma dopo averlo conosciuto negli anni Ottanta, quando dal Brasile tornava periodicamente in Italia per raccogliere fondi per il lebbrosario di Marituba. Io ero un miscredente, ma seguivo da lontano l’iniziativa del cardinale Martini, Arcivescovo di Milano, la «Cattedra dei non credenti», che promuoveva incontri di dialogo tra cristiani e atei o agnostici. E quando mi offrii come chirurgo plastico volontario per operare i lebbrosi, padre Aristide mi colpì molto proprio per la sua facilità di dialogo: era amico di tutti, qualunque fosse il loro credo.
Aveva sempre il sorriso sulle labbra ed era un messaggero di pace. Il Comune di Erba l’aveva premiato con una medaglia d’oro per la sua mediazione tra partigiani e nazifascisti nei giorni finali della guerra. Ma anche a Marituba continuò ad agire per la concordia tra le persone, intervenendo e sedando all’istante i litigi quotidiani tra i lebbrosi, che vivevano in una colonia immersa nella foresta, a 30 chilometri da Belem, esasperati perché respinti da tutti, a partire dai loro stessi familiari. Erano circa 150, la maggior parte dei quali ormai ridotti a soli tronchi umani. La lebbra non è una malattia mortale, ma è infettiva e mutilante, e richiedeva una chirurgia plastica riparativa e non d’urgenza, quindi programmabile: così trascorsi lì un semestre ogni anno dal 1986 dal 1990.
Questo mi permise di frequentare quotidianamente padre Aristide, apprezzandone molto la saggezza e il rapporto fraterno e familiare con i lebbrosi: a Messa stringeva loro la mano e, se non l’avevano, li accarezzava senza timore di contrarre la malattia. La sua stanza all’interno della missione era all’insegna della semplicità, così come la chiesetta adiacente. Ogni giorno alternava azione e contemplazione; non chiedeva offerte, ma se arrivavano non le rifiutava, poiché invocava spesso la Provvidenza rivolgendo lo sguardo al cielo.
Mi trovai a praticare amputazioni di dita di mani e piedi e trapianti di pelle su piaghe maleodoranti, con pochissimo materiale medico e chirurgico a disposizione, il che mi causava frustrazione. Allora iniziai anch’io a guardare in alto e quasi sempre riuscii a trovare una soluzione: per esempio, quando non avevo più garze, usavo ritagli di foglie di banano immersi in alcol; quando avevo finito gli aghi, sterilizzavo quelli usati con il fuoco di un accendino; per disinfettare le ferite le detergevo con cachaça, una bevanda alcolica simile alla grappa…
Col tempo appresi da lui alcuni insegnamenti esistenziali:
1) quando nello stesso periodo arrivano difficoltà e ostacoli, mettili in fila e cerca di risolverli uno alla volta;
2) se devi prendere una decisione importante, apriti e confidati con chi ti sta attorno, ma poi decidi tu personalmente;
3) non fare cose eccezionali, ma fai eccezionalmente bene cose normali (concetto fatto proprio da Marcello Candia, che si spogliò dei suoi averi per dare tutto ai poveri).
Naturalmente anche lui attraversò momenti di aridità, ma erano solo passeggeri. Un giorno, sorridendo, mi disse: «Aldo, te lo immagini se, dopo tutti questi sacrifici in nome del Padreterno, nell’aldilà non ci fosse nulla? Che fregatura!». Ma si trattava solo di un momento, poi riprendeva con la sua fiducia nella Provvidenza. Aveva solo un difetto: fumava parecchio. Quando glielo feci notare, sorridendo mi rispose: «Hai ragione, ma la perfezione non è nel mio essere: in questo mondo ci sono vizi grandi e piccoli, questo è un vizio piccolo…». Un giorno si improvvisò anche come “ostetrico” sul campo: non riuscendo a portare una donna incinta all’ospedale in tempo per la nascita, la fece partorire sul sedile posteriore della sua auto. Il neonato, un bel maschietto, ricevette il nome di Aristidinho!
Dopo la sua morte, al suo carisma si devono tre “miracoli” sociali: la lebbra oggi è quasi scomparsa; da colonia Marituba si è trasformata in una città di oltre 100 mila abitanti; l’ospedale che lui volle costruire rappresenta un’eccellenza sanitaria, gestita in maniera molto oculata dall’Opera don Calabria.
E per concludere, mentre prima rivolgevo il mio sguardo solo alle cose terrene, oggi, grazie a lui, lo rivolgo più spesso verso il cielo…
Aldo LO CURTO
22-03-2025
Tutte le testimonianze:
Marzo: Il «dottore missionario»: «Padre Aristide mi insegnò a guardare verso il cielo»
Febbraio: L’amico sindaco: «Padre Aristide, meriti di essere Santo»
Gennaio: «L’ingegnera» di Marituba: «Dom Aristides per me è stato un grande dono di Dio»