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L’amico sindaco: «Padre Aristide, meriti di essere Santo»

Padre Aristide, anzi Monsignor Aristide. Nella mia memoria il nome e la figura di Aristide, uomo, sacerdote, missionario e mi piacerebbe proprio affermare “Santo”, è scolpita e indelebile.

Da giovanotto, un po’ irriverente, avevo soprannominato quest’uomo eccezionale «Il Pennabianca» o «Il Comandante». Lo conoscevo, lo stimavo e, in un certo senso, lo tenevo come riferimento e guida umana da emulare. Aristide era un amicone di papà: col senno di poi, ritengo fosse una amicizia dovuta allo stesso amore e rispetto della persona umana che accomunava i due.

Frequentava la mia casa da giovane sacerdote e la mia percezione della sua personalità, da viziatello com’ero, era tale da configurare un avventuroso templare a fianco di tutti, ma proprio tutti quelli che avevano bisogno di un conforto fisico o morale nel nome della Chiesa.

Lui e papà si erano buttati a braccetto nel vortice della guerra per salvare il salvabile dalla ferocia e dalle sofferenze inevitabili in un conflitto ideologico e militare esteso a gran parte del mondo. Papà usava il suo mandato di Comandante provinciale dei Vigili del Fuoco per sottrarre alle ire naziste e fasciste gli innocenti che non volevano assoggettarsi al regime, arruolandoli nel corpo dei Vigili del Fuoco ed evitandone così la deportazione, Padre Aristide si frapponeva fra tedeschi, civili e partigiani, accettandone gli immaginabili rischi.

Probabilmente questo senso di solidarietà umana li accomunava talmente che per mia madre padre Aristide era diventato un ospite talmente importante e gradito che le sue visite nella nostra casa equivalevano a giornate di festa. Mi ricordo la sua figura snella nell’abito talare, che faceva risaltare ancor più la folta e ispida barba nera che ne esaltava l’irruenza, la temerarietà e l’avventuroso coraggio, in contrasto con lo sguardo e le labbra atteggiati a un perenne sorriso.

Col passare degli anni, nel permanente ricordo delle sue rischiose posizioni assunte per salvare Erba e gli erbesi dalle ire e dalle stragi tedesche e postbelliche, alla sua carismatica figura si aggiungeva una componente di elevato, innegabile valore religioso e missionario. Era chiaro a tutti gli erbesi e a quelli che lo conoscevano abbastanza a fondo che la sua vita e il suo valore e sapere sacerdotale e umano venivano dedicati ai più bisognosi e ai derelitti, senza limiti o confini territoriali.

In famiglia e, sono sicuro, per quasi tutti gli erbesi, la sua parola era diventata un costante richiamo ad alleviare attraverso la sua persona le miserie, soprattutto fisiche, umane. Dal momento in cui si trovò a operare in prima persona in Amazzonia e in altre regioni fu a tutti chiaro che era necessario accogliere le sue richieste di aiuti, soprattutto economici, per far sì che si realizzasse il suo bisogno di alleviare le sofferenze di tanti, anzi tantissimi suoi fratelli: una necessità e un dovere per lui insostituibili e vitali. Noi, suoi amici e compaesani, avevamo capito che padre Aristide, a mani nude, stava costruendo una città della solidarietà in terre lontane. Cosa che gli è riuscita benissimo ed è tutt’ora in evoluzione positiva. Per tutti noi era un dovere dare un po’ del nostro, per realizzare il suo bisogno di missionario della compassione.

Nel 1995, nel 40° del suo episcopato, durante il mio mandato di Sindaco della città, l’amministrazione comunale e i gruppi di volontariato, nonché i suoi amici, misero in atto una catena di festeggiamenti per dimostrare al Vescovo Aristide il loro affetto e la loro ammirazione per quello che faceva. I festeggiamenti comprendevano cortei e celebrazioni religiose solenni, ma soprattutto eventi che dimostravano la venerazione e l’affetto smisurato che legavano gli erbesi al Vescovo ormai classificato come «il Vescovo dei due mondi». Chiaramente quell’appellativo dimostrava il suo carismatico impegno per la pace e la solidarietà fra popoli lontani.

In quell’occasione ebbi modo di confrontare con padre Aristide, anzi con il Vescovo Aristide, idee e importanza dei valori e bisogni umani e religiosi. Durante questo affettuoso momento di vicinanza ho avuto la netta percezione di quanto fossero smisurati il suo impegno e il suo ingegno nel costruire dal nulla nuclei di grande solidarietà e sollievo alle miserie umane, a qualsiasi mondo appartenessero.

Mi resi conto comunque di quanto grande e potente fosse il suo operato di solidarietà, ma anche di quanto fosse semplice e mite la sua umanità. Mi confidò che quei momenti vissuti durante i festeggiamenti a lui dedicati – il giro d’onore della città in landò, il giro in Ferrari, l’abbraccio sul palco d’onore, la parata e l’esultanza dei cittadini delle forze dell’ordine, delle bande e dei gruppi di folklore – l’avessero ripagato di tanti anni di sacrifici e preoccupazioni. In poche parole mi fece capire come a lui fossero di grande supporto e aiuto l’affetto e la vicinanza dei suoi compaesani, dal primo all’ultimo, e come si sentisse ancora “un giovane erbese”, attorniato da sinceri e generosi compagni di vita, sia nella normalità, sia nell’avventuroso e difficile compito di messaggero di fede e solidarietà umana.

A seguito di questi festeggiamenti venne posizionato al centro della piazza prepositurale il Sacro calice, opera del maestro Angelo Miotto, quale simbolo di pace, religioso impegno e onore al vescovo Aristide, a cui fu poi dedicata anche la piazza stessa. La volontà dell’amministrazione comunale e dei cittadini erbesi era quella di conservare quel simbolo in quella giacitura, quale memoria perenne di un Vescovo che nel tempo avrebbe dimostrato agli uomini che in pace e attraverso la solidarietà i popoli potevano darsi la mano senza i limiti delle culture e dei confini.

Non sono certamente l’uomo più adatto per decantare le virtù umane e sacerdotali di padre Aristide, né vorrei, in un certo senso, limitare ingiustamente la sua storia di uomo di Dio, missionario e taumaturgico benefattore di tanti afflitti. Ho potuto constatare che quanto è già stato scritto di lui da eminenti, affidabili testimoni della sua bontà e santità, purtroppo per ora non riconosciuta, è appena sufficiente a definire i contorni del suo Ministero umano e spirituale.

Non dimenticherò mai, e come me tanti, quei suoi occhi penetranti, quel suo sorriso e il tenero abituale abbraccio che, al contatto della sua candida barba, ti avvolgeva con tenerezza. Giustamente chi ha avuto modo e la fortuna di conoscerlo è consapevole che il suo esempio profondamente cristiano e di innamorato di Dio non verrà dimenticato nel tempo, ma occuperà una parte del cuore di ogni suo “compaesano” e fratello per contemplare, servire e amare Dio e gli uomini.

Arrivederci padre Aristide: spero proprio che tu, come ti meriti, sia proclamato Santo.

Filippo Pozzoli

22-02-2025

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