Ricordiamo il Presidente onorario della nostra Associazione, scomparso ieri a 80 anni, attraverso la testimonianza che rese sulle ultime ore trascorse insieme a padre Aristide prima della sua morte (3 febbraio 1997)
Giovedì 30 gennaio avevo visitato padre Aristide ospite nell’ala nuova della casa del Pime, a Rancio di Lecco: casa che lui stesso aveva fatto costruire nel periodo in cui – forzatamente – era stato chiamato in Italia, in qualità di Superiore generale dell’Istituto. «Sai com’è – diceva -, anche i missionari ogni tanto hanno bisogno di ritemprare il fisico e di rafforzare lo spirito».
Il grande missionario aveva trovato accoglienza tra i compagni che avevano condiviso con lui la “grande illusione” e che, riposando, attendevano in fiduciosa attesa il viaggio più sognato. L’atmosfera a Rancio è tra le migliori. Monsignor Aristide Pirovano si trovava bene: raccontava, ascoltava, commentava, pregava, suggeriva, si preparava alla partenza più importante con rigore, puntiglio, serenità, fiducia e grande certezza.
Padre Aristide era ed è amato da tutti coloro che hanno avuto la fortuna di incontrarlo o di sentire parlare di lui. Tutti gli riconoscevano un grande carisma. Anche nel letto che lo vedeva morire giorno dopo giorno, i visitatori l’hanno sempre amato, rispettato e ascoltato. Il corpo del grande missionario si indeboliva minato dal male incurabile, ma lo spirito era vivo e la mente alacre e presente. È sempre stato un leader, lo sapeva e quasi ne soffriva… Accettava con umiltà la scomoda posizione di chi doveva prendere decisioni anche per gli altri. Noi gli riconoscevamo questa grande dote e non finiremo di ringraziarlo per i suoi consigli chiari, illuminati ed equilibrati.
Verso la fine di novembre avevamo fissato la data della partenza per Marituba: venerdì 31 gennaio, quindi il giorno dopo quella visita. «Vorrà dire che ci andrai da solo», mi disse al momento del consueto commiato, dopo aver letto una parte delle bozze che padre Piero Gheddo stava scrivendo a ricordo dei 50 anni di missione del Pime nella terra di Santa Croce. Padre Aristide faceva parte del trio che nel novembre del 1946 era partito per quelle terre.
Domenica 2 febbraio: mi telefona l’amica Enrica e mi comunica con animo triste il peggioramento dello stato di salute di padre Aristide. Mi sollecita a una visita che, per la verità, non avevo programmato. Ne parlo con mia moglie Franca e decidiamo di recarci a Rancio nelle prime ore del pomeriggio; Carla e Lina, le sorelle, ci aspettano nella loro casa di via Mazzini per accompagnarci.
Padre Aristide non sta bene, lo si vede subito, si capisce la sua sofferenza fisica. Eppure nessun lamento esce dalla sua bocca. Ci riconosce a mala pena, sembra assopito. Ci avviciniamo a turno e aspettiamo un cenno. Commovente è l’incontro e il colloquio con la sorella Lina; Carla decide di rimanere per la notte e le suore, sempre attente e disponibili, preparano il letto nella stanza accanto.
Io non mi do pace e cerco in tutti i modi di attirare l’attenzione e l’interesse di padre Aristide con i soliti argomenti che avevamo trattato durante gli ultimi anni (la Scuola San Vincenzo, Radio Maria, i ragazzi, Erba e la sua storia, la Curia, la sua vita, l’Amazzonia, Macapà, Marituba, il mondo…).
Verso le 16 Franca accompagna Lina e Carla a Erba, con l’accordo di ritornare verso sera con le apparecchiature per la dialisi di Carla. Incomincia così uno dei momenti più intensi e cari della mia esistenza. Non mi so rassegnare alla dipartita di persone che con la loro testimonianza hanno dato un senso al mondo; non posso accettare che padre Aristide se ne vada proprio ora che riesco a comprenderne l’alto valore e a percepirne gli insegnamenti.
Riprendo con energia il tentativo precedente e mi permetto di raccontargli una bugia. Quella mattina avevo adempiuto a una solenne promessa che ci eravamo reciprocamente fatti alcuni giorni prima: mi costava molto e lui lo sapeva benissimo (il lunedì successivo ho veramente mantenuto l’impegno). Grazie padre Aristide! Ma mi trovo che è proprio lui a ringraziare me… Ringraziando, riprende energia. la parola esce chiara dalle sue labbra.
Padre Aristide non voleva deludermi. Non se ne sarebbe andato senza prima avermi fatto un ulteriore favore: quello di dimostrarmi la sua amicizia. Perché mi voleva bene? Perché mi colmava di attenzione e mi onorava della sua fraternità? Cosa trovava di speciale in me questo uomo che ha conosciuto il mondo? Forse perché sono brianzolo e testardo come lui? Ma lui ha la santità dalla sua parte! Bella fatica, dico io.
Vivo momenti di emozione intensa e riesco a comprendere quanto fortemente padre Aristide ami la vita e come, contemporaneamente, accetti tutto ciò che gli capita, con smisurata fiducia nella Provvidenza che, sempre provocata, non lo ha mai tradito.
Comincio a concentrare il discorso sul Brasile e sulla necessità di completare la lettura delle bozze di padre Gheddo. Il pensiero si fa puntuale, il commento vivace e preciso: ormai ha la materia in pugno. Si vuole alzare e mettere sulla sedia; non c’è nessuno e io assecondo il suo desiderio. Poco dopo suor Renata entra nella stanza, si meraviglia e tenta un bonario rimprovero. Propone il menù per una parca cena, viene liquidata con un «fa’ ciò che vuoi». E via a parlare dei problemi che gli stanno a cuore.
La lettura delle bozze è terminata e noi continuiamo a parlare dei suoi lebbrosi, dei suoi bambini, di Gedovar, di Marituba, dell’ospedale, la grande opera incompiuta che lo tormenta e lo impegna: «Non può una zona popolata da centomila disperati – diceva – restare senza ospedale! Non è civile, va contro i più elementari principi umani, porca miseria!».
Sono le 18 e padre Aristide dà l’impressione di essersi totalmente ripreso. Lo spirito limpido e combattivo ha preso il sopravvento sul fisico che, a tratti, sembra ancora sofferente. «Porta via quel sacchetto – mi dice – e domani vedi cosa c’è da fare».
Entra suor Renata portando una minestrina saporita, un formaggino, una pera cotta e due mandarini. È l’occasione per una pausa e io ne sono quasi contrariato. «Non ho fame», taglia corto padre Aristide. Suor Renata non sa cosa dire. Intervengo io con tono amorevole e nel contempo deciso: «Per favore, mi porti una scodella vuota e un piatto: divideremo tutto da buoni fratelli». Accetta il compromesso, ci mettiamo seduti al piccolo tavolo, rimaniamo ancora soli e condividiamo, da fratelli, l’ultima cena. Siamo felici: padre Aristide perché sa di farmi contento, e io perché penso che un po’ di cibo gli possa giovare. Consumiamo la cena in religioso silenzio. Padre Aristide sembra già in paradiso.
Entra l’amico dottor Alessandro Parravicini e saluta con affetto monsignor Pirovano. Parliamo ancora un po’ e facciamo progetti per l’immediato futuro: il Brasile, Marituba, i suoi ragazzi, Gedovar, l’ospedale. Sembra tutto a portata di mano perché, come sempre, padre Aristide sa rendere efficace ogni concetto. L’espressione chiara è sempre stata il suo forte. Bella fatica, dico io: quando uno ha le idee chiare…
Verso le 19 entra padre Mozzato accompagnato dai confratelli: tutti tengono nelle mani un libricino e qualcuno porta delle ampolle contenenti l’olio degli infermi.
«Sa, monsignore, permetta… noi vorremmo pregare con lei…».
«Dai, dai, smettila di girare attorno al problema – interrompe padre Aristide -; mettiamoci in raccoglimento per l’estrema unzione che mi volete impartire». Lui seduto, noi tutti intorno. Sembra una scena evangelica. Non appare emozionato, ma si intuisce che è fortemente preso dal sacramento che sta per ricevere: partecipa attivamente e si lascia ungere le mani e la fronte. È risollevato, è contento di aver avuto la grazia di vivere questi momenti con i confratelli, con i quali ha condiviso gioie e sofferenze durante la sua lunga vita di missionario. Io non so cosa dire; interrogo con gli occhi Alessandro e leggo sul suo volto sconforto. Questa volta non ce la farà, dobbiamo rassegnarci a perderlo!
I padri escono, se ne va pure il dottor Parravicini; sono le 20. Ritorna mia moglie Franca con Carla e tutte le attrezzature per la sua dialisi. Padre Aristide non vuole coricarsi, ha ancora molte cose da raccontare: a me pare che la dipartita sia ancora lontana. Franca è felice e incomincia a programmare la settimana; il lunedì successivo avrei dovuto recarmi a Brescia, di ritorno sarei passato di nuovo per un breve saluto.
Cerco di aiutare padre Aristide a mettersi coricato. Mi respinge con cortesia, ma con mano ferma: quelli mani così espressive e così forti che il male non è riuscito a fiaccare, quegli occhi così dolci e profondi… non riuscirò mai più a dimenticarli. Si sistema nel letto; restiamo ancora un po’, gli stringo le mani e lui restituisce l’affetto. Mi trovo bene con lui… Sono ormai le 22 quando decidiamo di andarcene. Ci saremmo rivisti il giorno successivo… «Non dimenticare il sacchetto», mi dice. Poi, con le sue mani possenti, ci benedice. La sorella Carla avrebbe poi riferito di averlo visto tutta la notte seduto sul letto a leggere e a pregare.
Del mattino successivo abbiamo molte testimonianze. Ricordo l’emozione e la gioia incredula di padre Mozzato, che avuto l’onore di raccogliere gli ultimi pensieri di padre Aristide.
Io mi domando per quale motivo mi è stata riservata la possibilità di trascorrere con lui tutto quel tempo… E per quale motivo ho trovato nel famoso sacchetto il testamento spirituale scritto di suo pugno?
Padre Aristide, la ringrazio per la gioia che mi ha dato durante gli anni in cui ho avuto la fortuna di essere nel novero dei suoi amici.
Luigi Farina
(tratto da Aristide Pirovano. Il vescovo dei due mondi)